mercoledì 19 febbraio 2020

«Il tuo caso non è uno su un milione, è su qualche miliardo»





Zaur Kozyrev è un giovane cardiochirurgo. Lavora a Mosca nel Centro Bakulev. Desiderava diventare medico e imparare a salvare i cuori umani da bambino, quando lui stesso era un paziente di Leo Bokeria.
Quindici anni fa il piccolo Zaur arrivò per festa del Primo giorno di scuola nella sua città natale - Beslan. Nei tre giorni seguenti, il bambino, come tutti i suoi compagni di classe, fu tenuto prigioniero dai terroristi. Da scuola è uscito a malapena vivo, con una grossa scheggia nel cuore. Il fatto che il bambino sia riuscito a sopravvivere con un tale problema è un vero miracolo. "Il tuo caso non è uno su un milione, è uno su qualche miliardo", ha detto Bokeria quando è venuto a visitare il paziente dopo l'intervento chirurgico. Il dottore mostrò a Zaur il frammento che sino al giorno prima si trovava nel suo cuore ed era lì sul suo palmo. Fu allora che Zaur pensò: "Voglio diventare come lui".
Oggi Zaur Kozyrev opera già le persone e collabora con i suoi soccorritori. Questa storia ci è stata raccontata da lui stesso: come è riuscito a realizzare il suo sogno più grande e diventare un chirurgo in memoria di coloro che non sono tornati dalla scuola n. 1 di Beslan.
2004 BESLAN

«Era un giorno qualunque»

Era un giorno qualunque. Al mattino, come al solito, non volevo alzarmi. Non mi piace alzarmi la mattina, ma devo. Come allora anche adesso. Non vorrei, ma mi alzo. Ricordo che venne la mamma, le dissi che non volevo andare da nessuna parte. E lei: "Si deve". Ricordo che ho anche detto: "Non ha senso, è solo una festa - niente lezioni, niente". Ma ho una zia - insegnante in un'altra scuola, per questo sono stata costretto ad andare a scuola. Così era nella mia famiglia.

Ero passato in terza elementare, avevo circa dieci anni. Come al solito a scuola ci sono andato da solo, in giacca e cravatta, a parte in prima non mi hanno mai accompagnato.

Arrivato a scuola ho visto degli amici, abbiamo iniziato a parlare in fila, tutti si stavano preparando. Abbiamo deciso di andare in classe, dove si tenevano le lezioni, dal nostro insegnante. Entrati - tutte le porte si sono chiuse. Ad essere sinceri, siamo rimasti un po’ sorpresi, perché erano sempre rimaste aperte. Questo ci è sembrato molto insolito. D’accordo. Siamo usciti nel cortile, ho incontrato i miei compagni di classe. Poi le file si aprirono ed iniziarono a dire qualcosa al microfono, varie parole di circostanza.

I palloncini volarono in cielo - e tutto ebbe inizio ...

Improvvisamente spari, tutti correvano, nessuno capiva cosa stesse succedendo. Sapete quale sensazione ebbi? Come se fossi da qualche parte nello spazio. Non capivo cosa stesse succedendo. In uno spazio in cui c'è una cornice sfocata di fronte a te, non è chiaro cosa fare. Come molti altri, ho avuto la sensazione di dover correre dietro alla folla, verso dove tutti correvano, verso la palestra. Avevamo due ingressi e due uscite a scuola. I terroristi provenivano dal lato della ferrovia, una delle uscite, quindi era necessario cercarne un'altra. Un terrorista è apparso di fronte a me, ha iniziato a sparare in aria. Ho capito: se mi muovevo mi avrebbe sparato. Ho dovuto correre verso la palestra. C'erano finestre alte, erano già state rotte dalla calca. Ho iniziato a raggiungere le finestre. Qualcuno mi sta spingendo da dietro, mi arrampico, ma invano: i terroristi hanno iniziato a entrare nella scuola e attraverso le finestre della palestra. Una tempesta, una marea di gente intorno.

Hanno iniziato a spargerci per la sala. I terroristi mi hanno messo non lontano dalla bomba – all’uscita della palestra, letteralmente a cinque metri dalla bomba. Accanto a me c'erano studenti delle ultime classi. Ho sentito - dicono che si tratta di una specie di scherzo, sembra che qualcuno ci prenda in giro. Questo è uno scherzo.

Nessuno credeva che potesse essere vero. Ho ascoltato e pensato: questo succede solo nei film, nei film d'azione. Pensavo che i ragazzi finiscono e ci lasciano andare.

Il calore in quei giorni era insopportabile. Il secondo giorno cominciò a piovere, attraverso le finestre rotte superiori entrò un po’ in palestra. Non mi hanno lasciato entrare in bagno, mi hanno portato lì solo una volta ogni tre giorni.

Mentre ero seduto lì, tenuto in ostaggio, ho avuto un pensiero: grazie a Dio, sono qui da solo. Grazie a Dio non sono venuto con i miei genitori, con mia sorella. Non voglio che i miei genitori vengano uccisi, che veda la loro morte. Che muoia io piuttosto che i miei genitori. Sono contento che fossero a casa. Ma lì c’era una mia cugina. L'ho vista a scuola, mi sono seduto con lei, ci siamo seduti insieme per un po’. Poi l'ho persa di vista. Alla fine è morta.

«Scheggia nel cuore»

Mi sono svegliato solo in ospedale. Un ragazzo venne da me e mi chiese se ricordavo il numero di telefono - per chiamare i miei genitori. Ho dettato il numero, anche se non ero nelle piene facoltà. I genitori furono felici, arrivarono urlando, in lacrime. Mi guardai il corpo, senza graffi, senza bruciature, senza sangue, senza abrasioni - assolutamente niente. Solo dal lato del cuore - solo una garza bianca come la neve. Ho pensato: non c'è sangue, vuol dire che è una piccola abrasione. Ora capisco questo: poche persone sopravvivono con una tale ferita.

I medici non riuscivano a capire quale diagnosi fare: sulla radiografia era visibile una macchia nera. Ciò che è strano - non avevo alcun dolore, vertigini, ma solo quando stavo sdraiato. Se avessi iniziato a camminare, dopo 20-30 metri la testa avrebbe cominciato a girare e sarei svenuto.

Ho visitato tutti gli ospedali di Vladikavkaz, sono stato trasferito da uno all'altro. Da qualche parte il 9 settembre, sono arrivati dei professori da Mosca e ci hanno informato che ci avrebbero trasportato nella capitale. Siamo stati portati il giorno stesso. Ho volato con la mamma - papà in quel momento rimase a Beslan per aiutare la gente. Continuavo a cercare di alzarmi, per guardare Mosca. All'ospedale il dottore mi disse: "Non possiamo aiutarti con nulla, non possiamo operarti. Verso le nove di sera sono finito all'ospedale Bakulev. Alle dieci arrivarono i medici e mi portarono in sala operatoria. La mamma piangeva.

La mattina mi sono svegliato con un'enorme cicatrice sul mio petto.

Ho trascorso più di un mese nel centro Bakulev. Il secondo giorno dopo l'operazione, un cardiochirurgo Leo Bokeria venne da me. È bello che non sia volato al Congresso europeo dei cardiochirurghi a Lipsia quella sera quando c'è stata l'operazione. Aveva una scheggia tra le mani, me l’hanno levata dal mio cuore. L'ho esaminata: enorme, affilata, pesante, di ferro. Era più grande di qualsiasi proiettile. Sono stato molto sorpreso che il mio cuore sia sopravvissuto. Con questi frammenti, le persone non sopravvivono ...

Leo Antonovich ha letteralmente detto: "Il tuo caso non è uno su un milione, è uno su qualche miliardo". I medici in Germania non hanno visto mai nulla di simile nella loro vita.

 «Volevo diventare come lui»

Dopo l'operazione la mia vita è cambiata radicalmente. Ero un bambino in buona salute, atletico, giocavo a calcio, facevo kickboxing, basket, wrestling. Dopo l'attacco terroristico tutto è stato cancellato. C'è una placca nel mio petto, danneggiarla equivale ad uccidermi. Poco dopo ho nuovamente iniziato a giocare a calcio con i miei amici, ma avevo un terribile respiro affannoso, vertigini.

In terza media decisi di studiare medicina. Venivo da Leo Antonovich quasi ogni anno, gli facevo sempre gli auguri per il suo compleanno e per la Giornata del Medico. Questo è un grande uomo.

Penso che nessuna specializzazione sia paragonabile a quella del cardiochirurgo. Quando vai in sala operatoria e vedi che davanti a te c'è un uomo la cui vita dipende da te...

Volevo diventare come lui. Più parlavamo, più mi rendevo conto di essere attratto dalla medicina, dalla cardiochirurgia. Mi sono diplomato al liceo, ho superato gli esami e sono entrato all'Accademia medica statale dell'Ossezia del Nord (SOGMA). Tutti e sei gli anni sapevo che sarei diventato un cardiochirurgo. Dopo la laurea ho fatto domanda per il Centro di ricerca medica nazionale A.N. Bakulev. E da nessun'altra parte.

Grazie a Leo Antonovich, sono entrato in reparto. Ed ora, col passare del tempo, lo assisto: mi porta in sala operatoria, mi insegna, mi mostra tutto. Da parte mia per operare i pazienti, prescrivere loro le terapie. Ora lavoro in reparto e mi sto specializzando. Sembra che non ci sia affatto vita personale, ma non sono arrabbiato - al contrario, mi piace moltissimo. Spesso resto qui fino a mezzanotte, potrei non andare affatto a casa, rimanere per diversi giorni di fila. Avanti - scuola di specializzazione e vita, indissolubilmente legata al centro Bakulevskij.



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