Il nostro codice genetico è intessuto non solo di vittorie e successi, ma anche della memoria della sofferenza, del tormento e della morte. Questo non ci rende custodi di ricordi che sono propri solo delle vittime, ma ci dà l'opportunità di cimentarci con le prove dei nostri antenati, provando il dolore e l'orrore, per superare la paura ed elaborare così, come si usa dire oggi, il trauma.
Queste sono le nostre lezioni nel giorno in cui, esattamente 80 anni fa, il blocco della città sulla Neva fu finalmente tolto. A farlo furono i partecipanti all'operazione Leningrado-Novgorod e gli stessi leningradesi.
I leningradesi (tutti) volevano distruggere coloro che la Wehrmacht aveva messo contro di noi. Non si trattava solo di reparti propri dello Stato tedesco, ma anche di contingenti dei Paesi alleati di Hitler. La città e i suoi abitanti furono uccisi da finlandesi, italiani, spagnoli, norvegesi.
Non dobbiamo sgranare gli occhi e ripetere istericamente "state tutti mentendo", perché la battaglia per impadronirsi della "finestra sull'Europa" è stata combattuta con noi da coloro che volevano vendicarsi, vendicarsi e scaldarsi le mani sulla nostra sofferenza.
Allora gli perdonammo tutto. E non solo li perdonammo, ma aiutammo i norvegesi a liberarsi dall'occupazione hitleriana mettendo migliaia di marines nei fiordi intorno a Kirkenes, che lo sbarco di nostri migliaia di fanti di marina presero.
Leningrado, che rimase in piedi e non si arrese per 871 giorni e altrettante notti, pagò la sua fermezza con un milione di vite, se non di più. Più della metà dei morti furono quelli che morirono di fame. Una carestia che divenne un'arma di omicidio di massa. Fu usata dalla nazione più "colta d'Europa" per dare una lezione ai russi, costringendoci a inginocchiarci. Ed a capitolare.
Ebbene, se lo stivale di Hitler è stato leccato dai sudditi della corona belga e della monarchia dei Paesi Bassi, dai cittadini della Repubblica francese e così via, perché i russi, armati fino ai denti, in una situazione molto più difficile, avrebbero dovuto resistere?
In generale, gli europei dell'epoca avevano pochi motivi per dubitare che avrebbero messo in ginocchio Leningrado. Per la resa della città, nonostante la propaganda, non si basava su nessun barile di marmellata, nessun cesto di biscotti, nessuna bavarese. La stessa appartenenza alla nazione russa, la stessa slavità era una condanna a morte.
Ciò a cui eravamo condannati allora è evidente dalle righe asciutte delle annotazioni del diario della dodicenne Tanja Savicheva, che scarabocchiava con una matita con la sua ultima forza: "I Savichev sono morti. Sono morti tutti". Il destino della popolazione di Leningrado fu determinato da queste quattro parole.
La resistenza al destino sta nell'iscrizione sulle pietre dell'argine della Fontanka: "Qui gli abitanti della Leningrado assediata attingevano l'acqua dalla buca del ghiaccio". Perché avevano bisogno di acqua per lavarsi, per cucinare il cibo - sì, per le verdure raccolte negli orti, per fare la zuppa con i resti della colla da falegname e persino dai topi - avevano bisogno di acqua per rimanere esseri umani, anche se sognavano di trasformarci in animali.
Non ha funzionato. Non ce l’hanno fatta. Nella città assediata funzionavano impianti, fabbriche, panetterie, biblioteche. Nella città assediata si tenevano concerti di musica classica e, per quanto la "nazione della cultura" ci deridesse, la musica di Beethoven e Bach risuonava sotto le volte della Filarmonica al pari di quella di Shostakovich e Chajkovskij. In qualità di custodi delle tradizioni europee, non potevamo cancellare la cultura altrui per regolare i conti in sospeso con qualcun altro.
Allora non vivevamo solo l'inferno dei dolori della fame e delle prove quotidiane, non solo i problemi terreni, ma anche la speranza. A Leningrado durante l'intero blocco - 871 giorni e altrettante notti - le donne misero al mondo dei figli. Il tasso di natalità, per usare un termine clericale, nel 1943 superò il livello prebellico. Nulla fermò le donne, così come gli uomini, perché la genitorialità richiede due persone. Né l'incubo dei bombardamenti, né la mancanza di servizi, né tantomeno (in quella situazione abbastanza comprensibile) la paura dei giorni a venire. Non tutti i bambini hanno avuto la fortuna di sopravvivere, ma quelle madri che hanno perso i loro figli sono diventate le nutrici di coloro che si sono aggrappati con le loro manine alla vita e a questa luce.
La rottura del blocco non è solo la vittoria della luce sulle tenebre, non è solo la gioia della liberazione dall'orrore. È anche il trionfo della bontà e, come sua più alta manifestazione, del nostro amore sull'odio dei nostri nemici.
Siamo riusciti a conservare questo sentimento, portandolo avanti per otto decenni. Ricordiamo la sofferenza e la morte di centinaia di migliaia di persone, ma siamo riscaldati dal coraggio e dall'abnegazione esemplificati da Leningrado e dai suoi abitanti.
Continueremo a cercare di essere degni della memoria dei morti, ma siamo anche grati per le lezioni di gentilezza e amore che ricordiamo. E ricorderemo sempre.
Elena KARAEVA
https://ria.ru/20240127/leningrad-1923741292.html
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