giovedì 12 luglio 2018

INTERVISTA AL MINISTRO SERGEJ SHOIGU



"Gelo con Washington? Colpa delle élite americane”
A pochi giorni dallo storico vertice Putin-Trump abbiamo intervistato in esclusiva il ministro della Difesa della Federazione Russa, Sergej Shoigu. L’uomo simbolo del successo russo in Siria per la prima volta ha risposto alle domande di un quotidiano straniero
Alessandra Benignetti 11/07/2018 Il Giornale

 “Le relazioni tra Russia e Stati Uniti sono giunte al livello più basso nella storia recente”. A confermarlo, a pochi giorni dall’attesissimo vertice Trump-Putin di Helsinki, è il ministro della Difesa della Federazione Russa, Sergej Shoigu. Uomo simbolo della modernizzazione dell’esercito e del successo militare russo contro l’Isis in Siria, oggi è il politico più popolare in Russia dopo Vladimir Putin. Siamo stati a Mosca lo scorso aprile, dove a margine della VII Conferenza sulla Sicurezza gli abbiamo posto alcune domande sulle più importanti questioni internazionali.
Ministro, le tensioni tra Russia e Stati Uniti sono crescenti e preoccupanti: siamo sull’orlo di una nuova Guerra Fredda?
Spesso da parte americana sentiamo dire che la causa di questa situazione sia il presunto comportamento “aggressivo" della Russia. Noi, invece, crediamo che le tensioni siano state montate artificialmente da parte di quelle élite statunitensi convinte che il mondo si divida in “americano" e "sbagliato". Sono gli Stati Uniti che negli anni hanno rotto unilateralmente gli accordi chiave che costituivano la spina dorsale della sicurezza globale. Contrariamente alle promesse fatte alla leadership sovietica durante l’unificazione della Germania hanno iniziato l’espansione della Nato lungo i nostri confini. Per più di venticinque anni ci hanno preso in giro dicendo che non erano state date assicurazioni in questo senso, finché recentemente l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) americana ha desecretato gli archivi di quel periodo, dove è riportato con precisione cosa è stato detto e da chi. L’espansione della Nato ad Est e l’inclusione nell’Alleanza dei Paesi dell’Europa orientale, come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania, ha di fatto reso privo di significato per la Russia il trattato per la riduzione e la limitazione delle forze armate convenzionali in Europa firmato nel 1990 da Nato e Organizzazione del Patto di Varsavia, che prevedeva la limitazione degli armamenti nelle aree di contatto tra i due blocchi. Nel 2002 con la scusa della presunta “minaccia” di un attacco missilistico da parte di Iran e Corea del Nord gli Usa si sono ritirati unilateralmente dal trattato anti-missili balistici (ABM) e hanno iniziato a piazzare i loro radar e sistemi anti-missile in prossimità dei nostri confini. Come presidente della Società Geografica russa da tempo vorrei donare ai nostri colleghi americani un mappamondo affinché possano osservarlo e spiegarci perché se i “nemici dell’America” si collocano nel Vicino ed Estremo Oriente le loro basi e raggruppamenti militari debbano premere ai confini della Russia. Siamo noi a doverli difendere? Ora gli americani si preparano ad uscire dal trattato INF sui missili a corto e medio raggio. La ragione è una presunta violazione del trattato da parte della Russia.
Di che tipo?
Ci sono delle accuse vaghe ed infondate contro di noi. Ma non ci sono prove, soltanto dichiarazioni. E questo nonostante avessimo denunciato pubblicamente e più volte in tutti i principali fori internazionali come siano stati gli Usa a violare direttamente il trattato installando i lanciamissili Mk-41, adatti al lancio dei missili Tomahawk, nell’ambito dello schieramento dello scudo missilistico in Europa. Quasi tutta la parte europea della Russia è nel raggio di azione di questi missili. Alla Conferenza per la Sicurezza di Monaco del 2007 il presidente Vladimir Putin ha fatto appello alle leadership degli Stati Uniti e dei Paesi occidentali per il rispetto degli interessi nazionali della Russia e la costruzione di relazioni aperte e paritarie. Ma sfortunatamente in pochi hanno accolto il suo invito.

Per quale motivo, secondo lei?
Ora che sta recuperando le proprie forze la Russia non viene considerata come un alleato ma come una minaccia al dominio degli Usa. Veniamo accusati di avere piani aggressivi nei confronti dell’Occidente che continua ad ammassare truppe ai nostri confini. Come esempio posso citare la decisione presa a giugno dal Consiglio Atlantico sulla creazione di due nuovi comandi per la protezione delle comunicazioni marittime e il trasferimento rapido delle truppe americane dagli Stati Uniti in Europa. Oppure l’aumento del contingente nei Baltici, in Romania, Bulgaria e in Polonia, che è passato da 2mila a 15mila uomini, con la possibilità di costituire rapidamente un raggruppamento di 60mila unità con mezzi blindati. E dal 2020 prevedono di mantenere costantemente disponibili ai confini della Russia 30 battaglioni, 30 stormi aerei e 30 navi da guerra, pronti all’azione in 30 giorni. Tutto questo accade alle nostre frontiere occidentali. Allo stesso tempo gli americani violano costantemente il diritto internazionale intervenendo militarmente in varie regioni del mondo con il pretesto di difendere i propri interessi. È successo ad aprile in Siria con il massiccio attacco missilistico portato avanti sul territorio di uno Stato sovrano ed indipendente, con il supporto di Francia e Gran Bretagna. Si è trattato di una flagrante violazione del diritto internazionale sulla base di falsi pretesti commessa da tre membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. E questo non è un caso isolato, ma una tendenza.
Una tendenza?
Sì, si tratta della strategia neocolonialista già applicata in Iraq e in Libia, che consiste nel supportare qualsiasi tipo di ideologia, anche la più feroce, per indebolire i governi legittimi. Poi viene usato il pretesto delle armi di distruzione di massa o delle catastrofi umanitarie, e, in ultima analisi, l'uso della forza per creare un "caos controllato" che assicuri le condizioni per assorbire le risorse esistenti nell'economia americana attraverso le multinazionali. La Russia, che sostiene un’impostazione multipolare nelle relazioni internazionali, rappresenterà sempre un ostacolo all'implementazione di queste "strategie".
Esistono delle “linee rosse” che non devono essere oltrepassate?
In questo senso la nostra dottrina militare è molto chiara e la sua essenza è quella di prevenire ogni conflitto. Il nostro approccio ufficiale al ricorso alla forza militare è chiaro ed esposto dettagliatamente. Nonostante il mio ruolo credo fermamente che ogni questione possa e debba essere risolta evitando l'opzione militare. Per questo ho spesso invitato il capo del Pentagono a discutere le questioni più problematiche inerenti alla sicurezza globale e regionale, compresa la lotta al terrorismo. Ma da parte americana non sono ancora pronti ad un dialogo di questo tipo, benché sono sicuro che non solo il popolo russo e quello americano, ma tutti i popoli del mondo lo vorrebbero. Per ora, quindi, è in funzione soltanto un canale di comunicazione tra i nostri due comandi generali, attraverso il quale vengono portate avanti trattative, incluse quelle tra i capi di Stato Maggiore dei nostri dipartimenti della Difesa, che servono innanzitutto ad evitare che le attività militari di Russia e Stati Uniti portino ad un conflitto tra le nostre due potenze nucleari.
Spesso però il vostro Paese viene accusato di portare avanti “guerre ibride” contro l’Occidente…
Da noi c'è un detto: "Chi grida più forte al ladro è il ladro stesso". Per “azione ibrida” si intende l’utilizzo di strumenti di pressione contro un altro Stato, senza usare apertamente la forza. Questo tipo di guerre sono conosciute fin dai tempi antichi e hanno permesso alla Gran Bretagna di sconfiggere l’Impero Ottomano all’inizio del secolo scorso. Chi non conosce le avventure di Lawrence d’Arabia? Oggi le "azioni ibride" sono rappresentate dal controllo dei mezzi di informazione, dalle sanzioni economiche, dalle attività nel cyberspazio, dal sostegno alle rivolte interne, fino all'uso di unità specializzate per commettere atti terroristici e di sabotaggio. La lista potrebbe continuare, ma c’è un dettaglio importante. Per portare avanti con successo queste tattiche nel nostro secolo c’è bisogno di media globali e pervasivi, di possedere e padroneggiare le tecnologie di informazione e telecomunicazione, di concentrare su di sé le leve di gestione del sistema finanziario globale e di avere esperienza nell’utilizzo di forze speciali in altri Paesi. Chi oltre a Stati Uniti e Regno Unito possiede questo potenziale? Queste tecniche sono state sperimentate con successo da Usa e Gran Bretagna durante l'invasione dell'Iraq del 1991, subito dopo la fine della Guerra Fredda. Questo è un dettaglio molto importante, perché ai tempi dell’Unione Sovietica e del mondo bipolare esistevano queste tecnologie, ma non c'erano le stesse condizioni. E, a proposito, all’epoca il presidente degli Stati Uniti non era altro che l’ex presidente della Cia, George Bush. A partire dagli anni ’90 queste tecniche sono state messe in pratica dagli Stati Uniti nella ex Jugoslavia, in Libia, in Cecenia, e più di recente in Siria. Tutti i segnali di questa “guerra ibrida” sono stati ravvisati anche in Ucraina, alla vigilia del colpo di Stato del febbraio 2014. Anche i Paesi europei vi hanno preso parte in modo passivo. Oggi preferiscono non ricordare quando i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia garantirono personalmente al presidente legittimo dell'Ucraina, Viktor Janukovich, una soluzione pacifica della crisi se non avesse introdotto lo stato d'emergenza e avesse allontanato da Kiev tutti reparti delle forze di sicurezza. Ma subito dopo l'adempimento di questi obblighi i combattenti nazionalisti, armati ed addestrati da Stati Uniti ed Ue, hanno messo a segno il colpo di Stato e sono stati subito riconosciuti dall’Europa come autorità legittime. Questo tipo di accuse alla Russia sono iniziate a comparire sui media americani e britannici dopo il tentativo fallito di replicare uno schema del genere anche in Crimea.
Ovvero?
Semplicemente non abbiamo dato l'opportunità ai nostri partner d'oltremare di mettere in pratica queste tecniche in Crimea, dove, al contrario, c'è stato un referendum con il quale la popolazione ha deciso liberamente e, tra l’altro, alla presenza di centinaia di rappresentanti dei media americani, di abbandonare l’Ucraina e riunirsi alla Russia. Per fare un paragone dopo lo smembramento della ex Jugoslavia in seguito all’intervento Nato, il Kosovo non ha condotto alcun referendum generale ma si è visto riconoscere immediatamente l’indipendenza da Washington e dall’Europa dopo un semplice voto parlamentare, senza la più assoluta considerazione dell’opinione della popolazione serba residente in Kosovo e del dettato costituzionale jugoslavo.
La Siria sarà al centro del faccia a faccia tra i presidenti Vladimir Putin e Donald Trump. Che idea vi siete fatti della strategia americana nel conflitto siriano?
Stando a quanto spesso si sente nelle dichiarazioni rese ai media statunitensi dai rappresentanti del Congresso e dagli esperti del governo degli Stati Uniti per illustrare la strategia americana in Siria, non si riesce a coglierne l’essenza, non solo nel nostro Paese. Negli ultimi anni le teorie sulla presenza illegale, non solo dal punto di vista del diritto internazionale ma anche della legge americana, del contingente militare statunitense in Siria sono in continua evoluzione. Vorrei ricordare che all’inizio si parlava della distruzione dell'Isis, poi di prevenire la “rinascita” dell’Isis, ora vengono fatte dichiarazioni sul mantenimento della presenza in Siria per combattere un'ipotetica "influenza iraniana". Ciò nonostante è difficile liberarsi dall'impressione che l'obiettivo principale degli Stati Uniti sia quello di evitare la stabilizzazione del Paese, di prolungare il conflitto e di minare l'integrità territoriale siriana, creando delle enclave fuori controllo ai margini del Paese. Per anni nelle aree sotto controllo statunitense sono stati addestrati militanti che hanno combattuto attivamente contro il governo siriano, ai quali sono state fornite armi e munizioni, e non è superfluo notare come nel periodo in cui la coalizione internazionale a guida Usa ha combattuto l'Isis la porzione di territorio nelle mani dei terroristi sia aumentata. La civiltà e il governo laico sono stati mantenuti soltanto in pochi centri: a Damasco, Latakia ed in parte a Deir ez-Zor. Allo stesso tempo, malgrado gli obiettivi “chiari” e le buone intenzioni gli Stati Uniti non hanno dato un centesimo alla Siria per aiutare la popolazione civile ridotta in miseria da lunghi anni di guerra. Ciò riguarda anche l’ex capitale dell’Isis, Raqqa, liberata dagli Stati Uniti e dalla coalizione, dove ancora oggi la popolazione locale viene uccisa giornalmente dalle mine e dalle munizioni abbandonate dopo i massicci bombardamenti aerei della coalizione internazionale a guida americana sulla città. Ogni settimana sono dozzine i civili che perdono la vita, compresi i bambini. Parallelamente nei territori liberati dall’esercito di Damasco non è stato registrato alcun incidente che ha coinvolto la popolazione civile. Queste aree sono state sminate ed è stato consegnato cibo e materiale edile per consentire un veloce ritorno alla vita pacifica. Se ci fosse una "linea" alla base delle azioni americane in Siria, sarebbe troppo controversa per definirla una "strategia".
Un altro ostacolo alla stabilizzazione del Paese è la rivalità tra Iran e Israele…
L'Iran, come la Turchia, è uno dei maggiori attori della regione e gioca un ruolo chiave nella stabilizzazione della Siria. Come è noto, assieme a Turchia e Russia, è uno dei Paesi garanti del processo di Astana, mirato a trovare un accordo per la soluzione definitiva del conflitto in Siria. Per quanto riguarda le tensioni fra Iran e Israele la nostra posizione è quella di risolvere eventuali controversie attraverso il dialogo e non con l’utilizzo della forza militare o violando il diritto internazionale. L'uso della forza da ambedue le parti in Siria condurrebbe inevitabilmente ad un'escalation della tensione in tutto il Medio Oriente. Per questo guardiamo nella direzione di una soluzione diplomatica e pacifica di qualsiasi controversia e ci aspettiamo che entrambi i Paesi sappiano dare prova di moderazione.
In questo senso non crede che la possibilità di fornire al governo di Damasco il sistema di difesa S-300 rappresenti un ulteriore fattore di rischio?
Innanzitutto c’è da dire che il sistema S-300 è un sistema difensivo. Per questo non può rappresentare una minaccia diretta contro la sicurezza nazionale di alcuno. Questo sistema antimissile può minacciare soltanto un mezzo di attacco aereo. Inoltre, la decisione di fornire questo tipo di armamento all'esercito di un governo straniero è subordinata ad una formale richiesta, che al momento non è pervenuta. È quindi prematuro affrontare la questione nei dettagli. Alcuni anni fa rifiutammo di fornire al governo siriano questo tipo di armamento su richiesta di alcuni dei nostri partner occidentali, tra cui Israele. Oggi, dopo l'aggressione contro la Siria da parte di Usa, Francia e Gran Bretagna, che ha dimostrato la necessità per i siriani di dotarsi di moderni sistemi di difesa aerea, siamo pronti a riesaminare la questione.
Dalla guerra in Siria alla “guerra dei dazi”. Se le relazioni con Washington sono al minimo storico i legami con la Cina, invece, sono sempre più stretti…

Sicuramente le tensioni sul piano internazionale hanno contribuito ad un rafforzamento delle relazioni sino-russe che sono basate sul mutuo rispetto e la fiducia. Russia e Cina hanno relazioni amichevoli e strategiche di lungo corso e la cooperazione tra i nostri due Paesi si sta sviluppando in molti settori, compreso quello militare e tecnico-militare, e ciò è nell’interesse di entrambi gli Stati. Ad esempio, vengono condotte attività congiunte bilaterali di formazione operativa delle nostre forze armate, compresa l’esercitazione navale annuale “Cooperazione marittima” e l’esercitazione congiunta sulla difesa missilistica “Sicurezza aerea e spaziale”. Vengono svolte le esercitazioni militari multinazionali “Missione di Pace” degli eserciti e delle flotte dei Paesi membri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai. Inoltre, i rappresentanti cinesi partecipano ogni anno ai giochi militari organizzati dal ministero della Difesa. Oggi circa il 12% dell'export russo di armi è destinato alla Cina. Tuttavia, lo scopo delle nostre attività congiunte in questo campo, a differenza delle esercitazioni condotte da Nato e Usa in Europa, è puramente difensivo. La nostra partnership militare non è rivolta contro alcun Paese o blocco ma è mirata soltanto a rafforzare la sicurezza regionale e globale.
Cosa pensa degli ultimi sviluppi della situazione in Corea del Nord?
Tra Russia e Corea del Nord sono stati conclusi una serie di accordi nel campo della cooperazione tecnico-militare, il cui sviluppo è al momento sospeso nel quadro del rispetto da parte della Federazione Russa delle risoluzioni 1718 e 1874 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Al momento stiamo sperimentando una significativa riduzione delle tensioni tra il Nord e il Sud della penisola coreana. Diamo per assodato che questa tendenza positiva acquisisca carattere stabile ed irreversibile.
Tornando all’Ucraina, pensa che sarà possibile trovare una soluzione al conflitto in corso nelle regioni del Sud-Est?
Solo l'adempimento incondizionato degli accordi di Minsk da parte ucraina potrà evitare l'emergere di una situazione che rischia di condurre al genocidio della popolazione russa. Purtroppo però Kiev elude costantemente l’applicazione di questi accordi, trovando svariati falsi pretesti e facendo dichiarazioni accusatorie infondate contro la Russia. Allo stesso tempo Kiev respinge completamente la possibilità di dialogare con Donetsk e Lugansk, fondamentale per la risoluzione della crisi. Naturalmente il nostro Paese reagisce spronando Kiev ad implementare il complesso di misure contenute negli accordi e speriamo che i Paesi europei, in primis quelli che fanno parte del cosiddetto “formato normanno”, sappiano usare la propria influenza sulle autorità ucraine per giungere ad una soluzione pacifica del conflitto interno che va avanti nel Sud-Est del Paese. Ritengo impossibile l’ipotesi di uno scontro diretto tra Russia e Ucraina. Condividiamo le stesse radici, insieme abbiamo sperimentato le prove più difficili e abbiamo combattuto spalla a spalla per difendere la nostra libertà nella seconda Guerra Mondiale. Tutti i miei parenti da parte di madre vivevano in Ucraina e io stesso sono stato battezzato in una piccola chiesa della città mineraria di Stakhanov, nella regione di Lugansk. Sono convinto che nella nostra comune memoria storica non ci sarà mai posto per lo scontro reciproco e per l'inimicizia.





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