Consideriamo l'invasione delle
forze speciali albanese del Kosovo degli insediamenti comunali serbi nel nord
della regione della mattina del 28 maggio e la detenzione di 13 serbi che colà
vivono come un'altra provocazione di Pristina finalizzata ad intimidire ed
espellere la popolazione non albanese, stabilendo con la forza il controllo su
queste aree.
Ricordiamo come durante il
dialogo tra Belgrado e Pristina, con la partecipazione ed il sostegno
dell'Occidente, si era raggiunta la comprensione che le forze speciali della
polizia del Kosovo, armate di armi a canna lunga, non sarebbero entrate nel nord
popolato di serbi.
Tuttavia, negli ultimi anni, ciò è ancora accaduto molte
volte e con la piena connivenza della Forza internazionale del Kosovo che ha il
necessario mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di assicurare
la pace e la sicurezza nella provincia.
È chiaro che un comportamento
così provocatorio dei kosovari è una conseguenza diretta dei molti anni di
indulgenza da parte della UE e degli Stati Uniti. I leader del Kosovo si sono
abituati a che tutte le provocazioni rimangano senza conseguenze.
Questi comportamenti portano
all'incitamento delle tensioni interetniche, privano di significato degli
sforzi a lungo termine della comunità internazionale volti ad pacifico accordo
postbellico.
Il momento dell'invasione non è
stato scelto per caso – è accaduto immediatamente dopo il discorso del
presidente della Serbia A. Vucic all'Assemblea nazionale sulla questione del
Kosovo. Riteniamo che l'approccio di Belgrado, pacato e volto al raggiungimento
di una soluzione equa a lungo termine, non interessi né Pristina né per i suoi protettori
occidentali.
In un momento così cruciale,
chiediamo ai protettori internazionali di Pristina di ragionare con i radicali albanesi
del Kosovo e prevenire un ulteriore crescita del conflitto che avrebbe conseguenze
imprevedibili.
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